Il mio saluto per l’incontro Desaparecidos a quarant’anni dal golpe, all’interno del progetto “School of memories: costruzioni di memorie”

Signore e signori, care ragazze e ragazzi,
desidero ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del progetto “A scuola di memorie”, ringrazio in particolare l’Associazione di promozione sociale Tra-mare culture, l’Ambasciata Argentina di Roma, che ha offerto il proprio patrocinio, l’Università per la Pace di Ancona, che ha sponsorizzato l’iniziativa, e tutti i partner coinvolti.
L’appuntamento di oggi ci permette di conoscere e valorizzare questo progetto alla luce del suo significato più profondo, che sta nel condividere memoria per ribadire i nostri valori fondamentali della pace, della giustizia, del rispetto dei diritti umani.
Ricordare il colpo di stato avvenuto in Argentina quarant’anni fa, è un operazione culturale non facile, dal punto di vista politico, storico, sociale; ma è certamente un gesto coraggioso e doveroso, che ci permette di approfondire il senso di una storia che non riguarda solo quel Paese ma coinvolge tutta la comunità internazionale, e in particolare noi italiani, legati all’Argentina da una profonda amicizia e da una comune storia, se solo pensiamo ai tanti italiani e italiane che lì emigrarono all’inizio del secolo e ai loro figli, ai loro nipoti.
La sospensione della Costituzione, lo scioglimento del Parlamento e dei partiti, le violenze del regime, la repressione di qualsiasi forma di opposizione, sono fatti che accomunano tra loro il nascere e il consolidarsi di molte dittature, così come le tante storie di sofferenza che ogni regime comporta nel tentativo di imporre un proprio modello di conformismo sociale e culturale antitetico alla libertà e alla democrazia.
Nella storia della dittatura argentina ritroviamo violenze e torture, ragazzi scomparsi, bambini sottratti alle madri che li hanno partoriti durante la prigionia nei centri di detenzione: si tratta di una storia che ha lasciato una lunga scia di sofferenze, soprattutto alle famiglie cui è stato negato di conoscere il destino di un figlio, un nipote, un marito, e di tutti coloro che il regime etichettò come sovversivi per i loro impegni nei sindacati, nelle associazioni di difesa dei diritti civili, nelle università, nei partiti che non si riconoscevano nella dittatura.
Conoscere quelle memorie, non smettere mai di leggere e ascoltare le biografie degli argentini che hanno vissuto il dramma della scomparsa forzata delle persone, delle tante vittime innocenti di quella feroce dittatura, è un compito di grande valore, una ricerca della verità che conferisce ai giovani coinvolti in questo progetto una grande responsabilità etica e intellettuale, che consente di fare ricerca e costruire un sapere sia su chi subì violenze, discriminazioni e ingiustizie, sia su chi si macchiò di quegli atti atroci, come quello di sottrarre a giovani donne il proprio neonato per consegnarlo ad altre famiglie, spesso a quegli stessi militari responsabili della successiva uccisione di quelle ragazze.
Ecco perché mantenere viva la memoria su questo è anche un’azione di ricerca della giustizia, un tentativo forte di ribadire la cultura dei diritti umani e vedere affermarsi un nuovo sistema di giustizia internazionale.
Un contributo importante alla stesura della Convenzione internazionale dei diritti dei fanciulli e alla stesura dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale è giunto, in passato, proprio da Estela Barnes de Carlotto, divenuta nel tempo un simbolo di impegno, di speranza, di giustizia. Nota per essere Presidente dell’associazione delle nonne di Plaza de Mayo, Estela Carlotto ha vissuto il sequestro del marito, l’uccisione di sua figlia e la scomparsa del suo nipote, che ha potuto conoscere solo nel 2014, dopo 36 anni di ricerche. Il suo grande impegno ha permesso di sperare anche a tante altre donne che come lei hanno vissuto in prima persona il dramma dei desaparecidos. Una storia di dolore, dunque, ma anche di audacia che ha commosso e continua a commuovere tutto il mondo, perché ci invita a non arrenderci mai alle ingiustizie e a non rassegnarci mai all’indifferenza.
Io credo che davanti a questi processi la politica e le istituzioni non possano e non debbano mai far venire meno il proprio sostegno e la propria vicinanza.
Anche per questo ho trovato un gesto assolutamente significativo quello del Presidente Pietro Grasso, quando nell’ottobre 2014, durante una sua visita istituzionale, ha consegnato di persona al Ministro degli Esteri l’ultima tranche degli archivi raccolti durante la dittatura nella sede diplomatica italiana e contenenti centinaia di casi di persone scomparse di nazionalità italiana e italo-argentina: 661 fascicoli, 35 mila documenti analizzati e declassificati dalla Farnesina, che contribuiranno nel tempo a ricostruire storie di vita, a ricucire gli strappi della memoria collettiva argentina, a individuare responsabilità, ad agire per la giustizia.
Un segnale importante, portato a compimento dall’Italia, primo Paese europeo a farlo, che a mio parere testimonia una comune volontà di giustizia e di trasparenza, ma anche di cambiamento, di un futuro da scrivere in nome dell’amicizia tra i popoli.
È in questa prospettiva che voglio leggere anche quanto accaduto nella Casa Rosada, sede della Presidenza nel cuore di Buenos Aires, una settimana fa, quando Barack Obama si è impegnato pubblicamente a declassificare i documenti militari e di intelligence relativi ai rapporti tra gli Stati Uniti e la dittatura militare argentina. Barack Obama ha voluto rendere esplicito il riconoscimento degli sforzi e del coraggio di chi si è sempre opposto alle violazioni dei diritti umani: “negli anni 70 – ha dichiarato – i diritti umani non erano importanti come la lotta al comunismo. Siamo maturati, e ora bisogna ricostruire la fiducia tra i nostri popoli”. Un cambiamento epocale, a mio avviso, non meno della sua visita a Cuba.
Vorrei ricordare, a proposito di cambiamento, che proprio a Buenos Aires e in altre città dell’Argentina, a partire dalla manifestazione del 3 giugno 2015, sono scese in piazza migliaia di persone contro la violenza sulle donne, mettendo in moto una mobilitazione storica dopo una serie di femminicidi che ha scosso non poco il paese. Le manifestazioni sono proseguite anche con una significativa presenza di uomini, fatto assolutamente positivo perché la violenza e le discriminazioni contro le donne non sono un fatto privato né un fenomeno che riguarda solo le donne, ma sono al contrario una violazione dei diritti umani che può essere contrastata e prevenuta solamente se anche gli uomini si rendono protagonisti di questa grande sfida sociale e culturale, che sappia opporre alla famiglia patriarcale, agli stereotipi e al sessismo dominante, una rinnovata cultura del reciproco rispetto e della valorizzazione delle differenze nella piena parità tra donne e uomini.
Io credo ci sia un legame profondo tra questo clima di indignazione rivolto al presente e una maggiore consapevolezza degli orrori del passato.
È un legame che passa per il rifiuto delle relazioni violente, per la condanna di un modo di gestire la cosa pubblica secondo criteri discriminatori e opachi, e per la volontà di scrivere insieme una nuova storia in cui tutte le donne e tutti gli uomini possano vivere in libertà e autonomia, senza mai vedere minacciata la propria indipendenza.
Sono soprattutto le giovani generazioni a sapere di cosa stiamo parlando. Si tratta di fare tesoro degli orrori del passato e di trasformare in coscienza collettiva questo grande patrimonio che chiamiamo memoria.
Ci sono su questo scelte importanti che ciascuno deve saper compiere per quel che può, in virtù del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Quando lo scorso anno abbiamo approvato la legge per la ratifica della “Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate”, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006 ed entrata in vigore nel 2010, abbiamo contribuito a colmare un ritardo ingiustificabile, e lo abbiamo fatto nell’ottica di un impegno ad adottare tutte le misure per contrastare il fenomeno delle sparizioni forzate e per garantire alle vittime il diritto alla giustizia e alla riparazione.
Sono cambiamenti importanti anche questi. Li dobbiamo ai desaparecidos di ieri ma anche a quelli di oggi, ai tanti giovani che come il nostro Giulio Regeni rischiano di morire due volte, una per le violenze subìte e l’altra per la mancanza di verità e di una reale ricostruzione dei fatti e attribuzione delle responsabilità. La sua vicenda è stata giustamente accostata da più osservatori a quella dei desaparecidos, perché di fatto sull’Egitto pesano molte accuse. Il Centro Nadeem ha riferito recentemente queste cifre: 1250 sparizioni forzate, 267 uccisioni extragiudiziali, 700 casi di tortura documentati, 137 morti in detenzione, 81 per negligenza; nei primi due mesi dell’anno si contano già 88 casi. Per il regime del Cairo chi documenta abusi e sparizioni è un sovversivo. La situazione è grave anche in altri Paesi. Soltanto la Rete siriana per i diritti umani, ci informa un recente rapporto di Amnesty International, ha documentato dal 2011 ad oggi almeno 65mila sparizioni forzate, per la maggioranza riguardanti civili: gli scomparsi vengono solitamente trattenuti in prigioni sovraffollate, isolati dal mondo esterno, tenuti in condizioni terribili, molti muoiono a causa delle malattie e della tortura o sono vittime di esecuzioni extragiudiziali.
Oggi in Siria e in altri regimi nel mondo, come allora in Argentina, tra gli scomparsi vi sono operatori umanitari, oppositori pacifici, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, giornalisti, medici. Tutti accusati di essere sovversivi, o spie infedeli verso un governo, o perseguitati per vendetta verso un loro parente.
Davanti a tutto questo noi dobbiamo dire no, dobbiamo saper pronunciare il nostro “Nunca Màs”, mai più! E in questo sta tutto il senso del vostro studio, del vostro lavoro, del vostro sperare.
C’é una frase, rilasciata al quotidiano Avvenire dal premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel, la scorsa settimana, che ho trovato particolarmente significativa: “I diritti umani non sono una questione del passato”, ha detto.
Ecco, credo sia questo il tema da affrontare, quello di rendere la memoria coscienza collettiva e consapevolezza nei confronti del presente e del futuro.
Per questo sono certa che il progetto – che mi auguro possa proseguire ed essere implementato sempre di più, coinvolgendo sempre più studenti e studentesse – contribuirà a renderci tutti più ricchi, a guardare con maggiore consapevolezza e speranza a un futuro che è ancora tutto da costruire.
Sta a noi, e in particolare alle giovani generazioni, decidere di mettere le proprie conoscenze e saperi al servizio della pace, del dialogo, del rispetto. E credo sia giusto farlo, soprattutto in un momento storico come quello attuale, dove le tensioni internazionali, le guerre, le persecuzioni, il terrorismo, la logica dei muri, rischiano di far prevalere su questi valori il conflitto, lo smarrimento, la paura.
Grazie a tutte e tutti voi.